8 novembre 2016 Election Day: il conto alla rovescia
Questo mio blog www.GpNewsUsa2016.eu si ferma qui, dopo avere raccontato i mille giorni che hanno preceduto l’Election Day dell’8 Novembre negli Stati Uniti: le elezioni di midterm del 2014, le discese in campo degli aspiranti alle nomination dalla primavera 2015, l’estate e l’autunno segnati dai dibattiti fra gli aspiranti per farsi conoscere, l’inverno e la primavera delle primarie, l’emergere come battistrada e l’affermarsi di Hillary Clinton – a fatica – e di Donald Trump – imperiosamente -, le convention e le nomination, la campagna elettorale ed i tre dibattiti televisivi fra i due candidati, le sorprese d’ottobre, il voto.
Sinceramente, se avesse vinto Hillary avrei forse avanti il blog fino all’Inauguration Day, cioè fino al 20 gennaio. Ma, così, non me la sento proprio. Certo, c’entra la delusione e la preoccupazione dopo la vittoria di Trump, che, però, giornalisticamente, fa più notizia. Il motivo di fondo è che questi post, che lascio tali e quali, con le loro imperfezioni e i loro errori, senza operazioni di sorta alla ‘1984’, sono la testimonianza che per mille giorni non ci ho capito nulla.
Per me, Trump era un fuoco di paglia che si sarebbe presto spento; un istrione che riusciva a farsi notare fra gli altri tanti aspiranti repubblicani, capace d’animare l’estate del 2015, ma nei cui confronti l’interesse del pubblico si sarebbe prima o poi logorato; un fenomeno che mobilitava elettori altrimenti renitenti al voto, ma che sarebbe stato bloccato sulla via della nomination dall’establishment repubblicano e da un antagonista credibile; un candidato alla presidenza aggressivo e sguaiato, razzista e sessista, che sarebbe stato spazzato via dal voto popolare. Non ci ho mai azzeccato.
A fronte della mia incapacità di misurare, e quindi raccontare in modo adeguato, personaggi e situazioni, che non è resa meno stridente dal fatto di essere condivisa con sondaggisti, guru, esperti e giornalisti d’America e di tutto il Mondo, a risultati noti mi sono reso conto che c’era una marea di americanisti che avevano capito tutto - e che probabilmente non l’hanno scritto prima per rispetto verso colleghi come me, quotidianamente annaspanti nell’errore -. E m’è finalmente apparso chiaro come e perché sia la vittoria del magnate showman sia la sconfitta dell’ex first lady secchiona erano, fin dall'inizio, inevitabili e scontate.
Fuor di celia, e di livore, io continuo ad attribuire importanza alla preparazione, alla competenza, all'impegno e all'onestà – tratti che Hillary, almeno per tre quarti, ha e che invece Donald, almeno per tre quarti, non ha -. E mi sembra così inverosimile che uno come Trump possa divenire presidente degli Stati Uniti che non prendo neppure in considerazione l’ipotesi, rischiando, com'è accaduto, di trascurare i segnali che vengono dalla cronaca.
In questo momento, il pessimismo prevale sull'ottimismo. E il timore che il trend Brexit – Trump s’estenda ai prossimi appuntamenti elettorali europei, a cominciare dalle presidenziali in Austria, per proseguire con le presidenziali in Francia e le politiche in Germania, è grande. Non è escluso che, da qui a 15 mesi, più o meno, mi rimetta a raccontare, cercando di prendere meno cantonate, e sempre senza prendermi troppo sul serio, i mille giorni che mancheranno a Usa 2020, ma è presto per prendere impegni.
Prima di chiudere il pezzo e il blog, che resterà comunque accessibile - testimonianza, modesta e marginale, dell’insipienza, o incompetenza, cronistica - e diventerà presto una sezione del mio nuovo blog GPNews, che vi inviterò a visitare quanto prima, desidero ringraziare tutti quanti lo hanno reso possibile e/o vi hanno mostrato interesse: prima di tutto, i visitatori; poi, in particolare, lo Studio Ahmpla, senza il quale non sarebbe mai stato realizzato, il sito Formiche.net, che ne ha accolto i post in una sua sezione ‘ad hoc’, e la @Italic Digital Editions srl, per la quale, con l’aiuto di Gabriele Rosana, ne ho ricavato e pubblicato un ebook. (gp)
La vittoria Di Donald Trump su Hillary Clinton nella mappa del Collegio Elettorale estratta da www.270towin.com. I dati Stato per Stato, invece, ricavati da Politico.com qui,
Qualche anno fa, compariva sui nostri schermi la pubblicità di un noto bourbon: un gruppo di operai di una distilleria giocavano a centrare un bersaglio con un tappo di sughero, mentre aspettavano che il loro whisky americano maturasse in botti di rovere. La scena era certamente girata in Tennessee e quegli uomini erano una sorta d’incrocio tra ‘rednecks’, bifolchi un po’ grossolani degli Appalachi, e ‘blue collars’, operai delle fabbriche manifatturiere del MidWest, Ohio, Pennsylvania, Michigan, Wisconsin.
Se cercate gli artefici del successo di Donald Trump e i colpevoli della sconfitta di Hillary Clinton, li avete trovati in quello spot: sono loro, che, dislocate le fabbriche e perduti i posti di lavoro, hanno negli anni accumulato, con la crisi, rabbia e frustrazione. E, martedì, hanno scaricato il loro rancore nell’urna.
Loro, soprattutto i ‘blue collars’, nascono democratici, ma stavolta hanno fatto il salto della quaglia: hanno abbandonato al suo destino la Clinton e hanno votato Trump, che dà l’impressione di capire, lui miliardario, i loro problemi di poveri diavoli, mentre l’ex first lady parla preciso, ma difficile, e dà sempre l’impressione d’essere lontana. E poi quella è a Washington da una vita e non ha mai fatto nulla per loro: perché fidarsi?
A Hillary Clinton, non sono mancati i voti degli americani, perché, di suffragi popolari, ne ha presi più lei di Donald Trump – ieri pomeriggio, mentre la conta non era ancora finita, ne aveva 170mila di vantaggio -, ma sono mancati un po’ di voti in quegli Stati, specie Pennsylvania e Michigan, dove un candidato democratico che vuole la Casa Bianca deve vincere.
Attraverso l’Unione, la Clinton non ha neppure fatto il pieno dei suffragi delle donne – quelle tipo Susan Sarandon, che di andare alle urne per lei non ci pensavano proprio: troppo remissiva e tollerante, per amore del potere più che del marito e della famiglia, di fronte alle scappatelle di Bill – né di quelli dei giovani. Molti sono rimasti orfani di Bernie Sanders quando s’è ritirato riconoscendo d’essere stato battuto da Hillary nella corsa alla nomination.
Ora ci s’interroga, del tutto accademicamente, se i democratici non avrebbero fatto meglio a giocare contro Trump proprio Sanders, il senatore ‘socialista’ indipendente del Vermont che aveva destato tanto entusiasmo nelle primarie, dando del filo da torcere a Hillary. Sanders piaceva ai giovani e, forse, non avrebbe fatto scappare altrove i ‘blue collars’, con la sua retorica da populista di sinistra.
L’ex first lady, invece, non motivava né galvanizzava i suoi sostenitori. E neppure le minoranza nera e ispanica l’hanno sostenuta in modo convinto: di sicuro, non andavano a votare Trump; ma relativamente pochi andavano a votare Hillary. L’affluenza alle urne, al di là delle segnalazioni – sporadiche - di code ai seggi in talune località, non è stata altissima: i voti espressi sono stati meno di 120 milioni, in un Paese che ha 330 milioni di abitanti.
Ma le elezioni non le ha solo perse la Clinton, le ha anche vinte Trump, che pur potendo contare soltanto su un segmento d’elettorato ben determinato, se l’è giocata bene e senza grandi strepiti, fronte tattica. Un esempio: il serrate finale della sua campagna nel Michigan era stato interpretato come il tentativo disperato d’arginare un’emorragia di Stati in bilico che i sondaggi lasciavano intravvedere. Invece, il magnate s’è andato a prendere proprio i voti di cui aveva bisogno e che hanno fatto la differenza. (gp)
L’incontro alla Casa Bianca tra il presidente Barack Obama e il presidente eletto Donald Trump è stato “meno imbarazzante di quanto si poteva immaginare”: se questo è quanto di meno peggio riesce a dirne il portavoce Josh Earnest, il colloquio non dev’essere stato davvero granché.
E, intanto, le fetta d’America che non ha votato Trump, più grande di quella che l’ha votato, fatica ad adattarsi all’idea che sia presidente: decine di migliaia di persone, per lo più giovani, sono scese in piazza in tutta l’Unione, pure davanti alla Casa Bianca, scandendo lo slogan ‘Not my President’; e le proteste si sono rinnovate la notte scorsa. Certo, sarebbe stato più utile se molti di quei giovani, irriducibili ‘sanderistas’ o reduci di ‘Occupy Wall Street’, fossero andati a votare martedì, invece che starsene a casa perché delusi dall’assenza di Bernie Sanders e non convinti da Hillary Clinton.
L’incontro tra Barack e Donald - L’incontro nello Studio Ovale è stato come togliersi un dente, per i due protagonisti: s’aveva da fare ed è stato fatto. Una stretta di mano che più rapida non si può, un’ora e mezzo di colloquio, quattro battute davanti a telecamere e giornalisti, senza rispondere a domande, ma limitandosi a fare brevi dichiarazioni.
Trump aveva l’aria di quello che non è a suo agio e un po’ sbuffa, Obama aveva l’aria vagamente scanzonata di chi sta per andare in vacanza: gli sguardi che non s’incontrano quasi mai, il peso del corpo appoggiato al bracciolo della poltroncina lontano dal proprio interlocutore. Il presidente parla di una “eccellente conversazione”, assicura che farà di tutto perché il nuovo presidente riesca nel suo compito, perché “il suo successo sarà il successo del nostro Paese”. Trump dice che incontrare Obama “è stato un onore”, che il presidente è “proprio una brava persona” e che lui è pronto a lavorare insieme per la transizione, che durerà 70 giorni, fino all’insediamento alla Casa Bianca il 20 gennaio.
Banalità assolute, acqua fresca. Del resto, fino a lunedì scorso, i due se le davano di santa ragione, sia pure a parole e a distanza: Trump attribuiva ad Obama, e alla Clinton, tutti i mali del Mondo e dell’America; Obama ripeteva di continuo che Trump “non è qualificato” per fare il presidente e ammoniva che la sua elezione sarebbe stata “un pericolo” per le istituzioni statunitensi. Su entrambi i punti, è probabile che Obama continui a pensarla allo stesso modo.
Però, il galateo istituzionale ha le sue regole e bisogna rispettarle. Magari non proprio fino in fondo: secondo il Wall Street Journal, infatti, gli Obama hanno cancellata la ‘foto di famiglia’ con Donald e Melania all’ingresso sud della Casa Bianca, Nel novembre 2008, nella loro analoga prima visita alla Casa Bianca dopo le elezioni, Barack e Michelle posarono accanto a George W. Bush e a Laura.
La demolizione dell’eredità di Obama - Nel colloquio con Obama, Trump ha evocato le difficoltà e i problemi che vede di fronte a sè. Obama lo ha pure informato dei prossimi, e ultimi, viaggi che s’appresta a fare da presidente, visitando Germania, Grecia e Perù. I due, ammette Earnest senza giri di parole, “non hanno superato le differenze”, anche se Obama giudica “rassicuranti” i toni più recenti di Trump, adottati da quando è stato eletto.
Il magnate e showman ha pure fatto togliere dal suo sito l’anatema sui musulmani, cioè il proposito di vietarne l’ingresso negli Usa. Forse, qualcuno gli ha spiegato che la discriminazione razziale e religiosa è incostituzionale e che il presidente non può violare la Costituzione.
Dalla Casa Bianca, Trump s’è poi trasferito in Congresso, per un altro incontro non proprio facile: quello con lo speaker della Camera Paul Ryan, che in campagna gli ha lesinato il consenso ed è stato invece prodigo di critiche. Operativamente, però, i due hanno subito trovato un’intesa: l’Amministrazione repubblicana si muoverà rapidamente per abolire l’Obamacare, il lascito più importante del doppio mandato di Barack Obama, e per riformare i meccanismi fiscali, riducendo, in particolare, le aliquote a carico delle aziende.
Proteste in tutta l’Unione – Superato lo shock dell’elezione di Trump e della sconfitta di Hillary, l’America democratica si mette in marcia: nelle strade di decine di città di tutta l’Unione, sfila la rabbia di chi non vuole il magnate sessista e l’elusore fiscale alla Casa Bianca.
La protesta parte da New York, dove Trump vive, e s’allarga in poche ore dall’una all’altra costa, mettendo in allarme autorità e forze dell'ordine, che temono scontri nei prossimi giorni: l’allerta è massima, in vista del fine settimana.
Lo slogan 'Not my President' unifica un movimento variegato: dalle 'donne di Hillary' ai 'sanderisti', arrivando fino ai repubblicani moderati profondamente delusi dal proprio partito. Decine di migliaia di persone hanno manifestato, tra mercoledì e giovedì, in almeno 25 città: un centinaio gli arresti; e cortei e sit-in si sono ripetuti nelle ultime ore. Le proteste più numerose a Manhattan e Los Angeles, la più violenta a Oakland, con lancio di molotov, sassi e tre agenti feriti. Cortei si sono svolti anche a Boston, Filadelfia, Chicago, Detroit, Cleveland, Seattle, San Francisco e altrove.
Su Facebook è stata aperta una pagina 'Not my President', al fine di organizzare un mega-raduno a Washington il 20 gennaio, in occasione dell'Inauguration Day, per farne l’insediamento più contestato nella storia degli Stati Uniti.
Dal punto di vista della sicurezza, la situazione più delicata è a Manhattan, sulla 5° Strada, davanti alla Trump Tower, dove il presidente eletto vive con la sua famiglia. L’edificio, letteralmente stretto d’assedio da oltre 5mila persone, è protetto da transenne, camion anti-bomba e agenti in tenuta antisommossa, mentre lo spazio aereo sopra Midtown Manhattan è stato chiuso. Le Trump Towers e gli Hotel di Trump sono divenuti bersaglio di proteste ovunque.
Si risveglia la contestazione anche nei più famosi atenei americani, a partire dalla marcia indetta dagli studenti dell’Università di Berkeley, in California, culla del movimento studentesco e pacifista degli Anni '60. La coscienza civile d’un Paese distratto sembra sussultare; 48 ore troppo tardi. (gp)
La notte dopo, e il giorno dopo, parlano Donald Trump, il vincitore, il 45° presidente degli Stati Uniti, e Hillary Rodham Clinton, la sconfitta, la donna che non sarà presidente: discorsi quasi scontati, ma che proiettano l’America nel ‘dopo elezioni’, archiviando con poche scontate battute 18 mesi di campagna aspra e spesso cattiva. Trump, per una volta, segue il copione: “Sarò il presidente di tutti – dice -: è l’ora di essere uniti e di rinnovare il sogno americano. Con il Mondo, cercheremo alleanze, non conflitti”. La Clinton ha bisogno di più tempo per riprendersi dalla batosta e rimettere in sesto le idee: “La sconfitta fa male – ammette -, ma ora bisogna accettare il risultato e guardare al futuro. Trump ora è il nostro presidente”.
Discorsetti: frettoloso, quello di Donald, che aspetta di ricevere la telefonata di congratulazioni della rivale prima di presentarsi ai suoi fan, quando a New York è notte fonda e in Italia è l’alba; molto più emotivo, quello di Hillary, forse al passo dell’addio dalle ambizioni pubbliche. Per prendere le misure a Trump come presidente, bisognerà attendere il discorso d’insediamento, il 20 gennaio, e il primo discorso programmatico al Congresso riunito in sessione plenaria, entro fine gennaio.
In una lunga notte di tregenda elettorale, l’America s’è consegnata a Trump per i prossimi quattro anni e gli ha affidato la valigetta nucleare; e ha pure regalato al nuovo presidente un Congresso al suo servizio, tutto repubblicano. Il mix di frustrazione e populismo del magnate e showman travolge – proprio quand’era più necessario - il sistema di bilanciamento dei poteri voluto dai Padri Fondatori degli Stati Uniti. Un correttivo verrà, forse, dalla mancanza di sintonia tra presidente e partito, anche se, adesso che Trump ha vinto, sono già venuti dai leader repubblicani, in primi Paul Ryan, segnali d’allineamento.
Come già per la Brexit, vince la scelta opposta a quella pronosticata da sondaggi, esperti e allibratori: rabbia e protesta si confermano più forti di razionalità e competenza. Se l’America esce dal voto divisa, l’Europa e il Mondo ne escono preoccupati, impauriti, anche se i messaggi di congratulazioni al neo-presidente mascherano questi sentimenti dietro rituali auspici di cooperazione. Se l’America ha istituzioni democratiche forti e una Costituzione solida per affrontare la bufera, l’Ue non le ha: l’effetto domino, dopo la Brexit e l’elezione di Trump, può farla vacillare e crollare, specie se dovessero affermarsi altri populismi, in Francia, nel Benelux, in Germania, magari in Italia.
I mercati hanno sulle prime reazioni da panico: il dollaro va giù, l’oro va su, il peso messicano crolla. Poi, tendono a normalizzarsi, cominciando a metabolizzare la nuova situazione – la transizione durerà almeno sette settimane -. E ovunque ci s’interroga sull’impatto che l’elezione del magnate avrà, con tutte le sue incognite e contraddizioni economiche e di politica estera: l’immigrazione e il protezionismo; la Russia e l’arco di guerre dall’Afghanistan alla Nigeria via Medio Oriente e Nord Africa. In campagna, Trump aveva uno slogan per ogni problema; ora, dovrà proporre ricette e praticare soluzioni.
La mappa elettorale non esprime a pieno la spaccatura dell’Unione semplificata dal cromatismo rosso/blu degli Stati repubblicani e democratici, senza tenere conto delle divisioni etniche, di genere e di censo che venano la società americana. La scelta di Trump sembra il colpo di coda d’un’ex élite maschia e bianca, frustrata da otto anni di un presidente nero e forse irritata dall’idea di cedere il potere a una donna.
Ma non è solo questo, non sta tutto qui: c’è la ribellione al globalismo; c’è il mito eterno del ritorno all’età dell’oro; c’è il primato ostentato dell’apparenza e della brillantezza – magari ruvida, volgare, eccessiva – sulla sostanza e la concretezza; c’è una trasformazione, demografica e ideologica, del partito repubblicano, che esce dall’alveo di Abraham Lincoln e di Theodore Roosevelt e accoglie nelle proprie fila blue collars e classe media, democratici delusi.
E le contraddizioni s’addensano: Massachusetts e California – che votano Clinton – danno l’ok a legalizzare la marijuana per uso ricreativo. Nel Nebraska, che vota Trump, torna, invece, la pena di morte: il ripristino della pena capitale, là dove il boia non colpisce dal 1997, passa a un anno dalla decisione di sospenderla. Altrove, un referendum cancella il salario minimo da poco istituito.
C’erano elementi di premonizione nel messaggio con cui, a seggi non ancora ovunque chiusi, il presidente Barack Obama salutava l’inizio dello spoglio: “Comunque vada, l’America resta una grande Nazione”. E questa resta una pagina di democrazia nella storia di un grande Paese, che è sempre capace di cambiare, pur non sempre andando nella direzione della storia.
La notte dello spoglio era partita con sfumature di speranza per la candidata democratica, sostenuta da tutta una serie di segnali considerati per lei positivi, come l’alta affluenza. Ma vira in modo deciso, determinante, al rosso repubblicano quando i tre grandi Stati in bilico, la Florida, l’Ohio e la North Carolina, finiscono l’uno dopo l’altro, nel giro di un’ora, nel paniere di Trump.
Da quel momento, l’ultima ridotta democratica si riduce nel MidEst tra Wisconsin e Michigan. Ma neppure lì Hillary tiene le posizioni: gli Stati manifatturieri delle fabbriche perdute seguono l’illusione del ritorno dei posti di lavoro promesso da Trump. A tratti, l’andamento dello spoglio ha echi delle elezioni del 2000, quelle rimaste in bilico per settimane tra George W. Bush e Al Gore; ma tutto si risolve poco dopo la mezzanotte di New York, che non viveva una serata elettorale così, con tutti e due i candidati nella Grande Mela, dal 1944. (gp)