8 novembre 2016 Election Day: il conto alla rovescia
Noioso, non è stato noioso: molto meglio del precedente, il mese scorso, un vero mortorio. Magari perché stavolta erano solo otto sul palco, e non più dieci come sempre accaduto finora, gli aspiranti alla nomination repubblicana hanno avuto tempo per esprimersi e pure per attaccarsi fra di loro. Chi abbia vinto, non è chiaro, anche se Donald Trump s’è affrettato ad autoproclamarsi vincitore.
Lo confermerebbe un improvvisato sondaggio del Daily Telegraph: il magnate dell’immobiliare e showman è l’unico a raccogliere più apprezzamenti positivi che negativi, insieme – una sorpresa – al candidato libertario Rand Paul, senatore del Kentucky. Tutti gli altri finiscono in rosso: di poco Marco Rubio e Ted Cruz; nettamente Ben Carson, Jeb Bush e Carly Fiorina, gli altri protagonisti più attesi.
Sulla scena di Milwaukee, nel Wisconsin, e sugli schermi della Fox, i candidati repubblicani – ne restano in lizza 15, sette sono stati relegati a un evento minore – hanno avuto, questa volta, moderatori non ostili, com’era stato in particolare nel terzo dibattito sulla Cnbc. A porre domande, c’era pure la celebre anchorwoman Maria Bartiromo. Carson, ancora sotto tiro per i falsi racconti sui suoi trascorsi studenteschi, ha ironicamente ringraziato perché nessuno gli ha chiesto dove abbia mai fatto le elementari e come se la sia cavata.
S’è parlato soprattutto di economia, di Obamacare, d’immigrazione: Trump vuole ‘deportare’ 11 milioni di immigrati illegali e costruire un muro al confine con il Messico, come fa Israele “che se ne intende”: gli ispanici a vario titolo Bush, Rubio, Cruz non sono d’accordo. Ma vi sono pure state sortite, non sempre felici, sulla politica estera.
Su un punto, tutti sono stati d’accordo: attaccare Obama e, quindi, Hillary Clinton, ormai quasi certa della nomination democratica e intenzionata, una volta eletta, a portare avanti molte scelte dell’attuale presidente. Tutti i candidati hanno avuto i loro momenti no. Raccontiamone alcuni, seguendo gli input di Ruth Sherlock, una corrispondente da Washington.
Ted Cruz e il fantasma di Rick Perry – Quattro anni fa, l’allora governatore del Texas Rick Perry si ritirò dalla corsa alla nomination dopo non avere saputo citare le tre priorità del suo programma, in un’intervista. L’altra sera, il senatore del Texas, ‘campione’ del Tea Party, ha fermamente annunciato l’intenzione di chiudere cinque Agenzie federali, ma giunto alla quarta s’è fermato e non è andato oltre. Quale sia la quinta resta un mistero. I moderatori l’hanno graziato.
Marco Rubio inciampa sul saldatore – Il senatore della Florida, che costituisce l’insidia maggiore per Jeb Bush, dato per scontato che Trump e Carson si perderanno per strada, è contrario, come tutti i suoi rivali, al salario minimo, ma, per dare forza al suo argomento, sostiene che “i saldatori guadagnano meglio dei filosofi”. Sta ancora parlando che i social media lo subissano di smentite, perché i filosofi guadagnano in media il doppio dei saldatori, negli Stati Uniti. Forse, ipotizza Catherine Addington, in un suo tweet, Rubio pensava a Carly Fiorina, laureata in storia medievale e filosofia: lei guadagna 59 milioni di dollari l’anno, ma è pur sempre un eccezione.
Chi conosce meglio Vladimir Putin? – E’ un privilegio che Trump e la Fiorina si contendono davanti ai milioni di telespettatori americani. Invece, Rubio bolla il leader russo come “un gangster, un figuro da crimine organizzato” – lui non gli ha mai parlato -. La gara tra lo showman e l’ex ceo di Hp finisce pari: tutti e due hanno effettivamente incontrato Putin, ma tutti e due solo in uno studio televisivo mentre attendevano di essere intervistati. Vantaggio a Carly, però: l’attesa durò ben 45 minuti.
Benson tratta il Califfo come il Faraone – L’ex neurochirurgo, un seguace della Chiesa avventista del Settimo Giorno, non manda proprio giù i satrapi d’oriente, che siano quelli d’una volta o quelli d’oggi giorno. Ai Faraoni, nega il merito di avere costruito le Piramidi (opera dell’ebreo Giuseppe). E al Califfo predice una rapida fine: distruggere lo Stato islamico sarebbe “un gioco da ragazzi”, basta portargli via la provincia di Anbar, in Iraq. Peccato che da oltre un anno iracheni ‘lealisti’, pasdaran iraniani, peshmerga curdi e la coalizione messa su dagli Stati Uniti con i raid aerei ci stiano provando, senza risultato. (gp)