8 novembre 2016 Election Day: il conto alla rovescia
Donald Trump non c’era, e quindi non ha parlato. Ma di lui s’è parlato, e molto, sul palco dell’ultimo dibattito in diretta televisiva fra gli aspiranti alla nomination repubblicana, prima dell’inizio delle primarie lunedì con le assemblee nello Iowa. Orfani dello showman, i suoi rivali hanno così perso l’occasione di dimostrare di vivere di luce propria, invece che di luce riflessa.
Anche se era difficile ignorare "l'elefante che non è nella stanza", come ha detto Megyn Kelly, moderatrice del dibattito. La decisione del magnate dell’immobiliare di boicottare l’evento era stata presa proprio in polemica con la giornalista della Fox News, rea di avergli posto domande scomode nel primo dibattito l’agosto scorso.
Mentre il confronto andava sugli schermi, ancora tenevano banco gli strascichi della polemica, dopo le rivelazioni della rete secondo cui Trump pretendeva dalla Fox 5 milioni di dollari in beneficienza per tornare sulla sua decisione e partecipare al dibattito, mentre Trump sosteneva che la Fox s’era sì scusata, “ma non abbastanza”.
Così, il magnate dell’immobiliare ha organizzato, in parallelo allo show tv, sempre a Des Moines, un comizio e una raccolta di fondi per i veterani, che avrebbe fruttato sei milioni di dollari – uno ce l’ha messo lui del suo -. Con Trump, c’erano due candidati esclusi dal dibattito televisivo perché troppo bassi nei sondaggi e venuti a sostenere i reduci e a cercare di profittare del riflesso mediatico dello showman: Mike Huckabee e Rick Santorum, i vincitori delle primarie repubblicane in Iowa nel 2008 e nel 2012 rispettivamente.
I social network decretavano che il dibattito, senza Trump, era una noia, mentre Hillary Clinton ne bollava i protagonisti come completamente impreparati – un giudizio pre-cotto, che non sarebbe certo cambiato Trump presente -.
Eppure, i sette candidati sul palco hanno cercato di ricavare il massimo dall’assenza di Trump, se non altro perché avevano più tempo a disposizione per dire la loro: c’erano i senatori del Texas Ted Cruz, della Florida Marco Rubio e del Kentucky Rand Paul, l’ex governatore della Florida Jeb Bush e i governatori del New Jersey Chris Christie e dell’Ohio John Kasich e, infine, il guru Ben Carson.
Cruz, l’uomo del Tea Party e per ora il rivale più pericoloso di Trump, che aveva sfidato il magnate dell’immobiliare ad affrontarlo in un dibattito testa a testa prima del voto (“90 minuti, Donald ed io”), ha scherzosamente insultato se stesso e tutti gli altri, facendo così “la parte di Donald”: “Io sono un maniaco –ha esordito- e tutti voi su questo palco siete stupidi, grassi e brutti. E tu Ben sei un pessimo chirurgo”, detto a ben Carson, ex neuro-chirurgo di fama mondiale. Jeb Bush ha scelto l’ironia: “Mi manca Trump –che è sempre stato caustico nei suoi confronti-, è il mio orsachiotto. Abbiamo sempre avuto una relazione amorosa nei dibattiti e negli scambi su Twitter”.
Christie dice che gli elettori vogliono un leader capace e cerca di affrancarsi dagli scandali che lo hanno coinvolto. Carson, che viaggia sempre sui massimi sistemi e afferma che non serve essere politici per dire la verità, offre “nuovi approcci”. Paul spinge per una riforma della giustizia. Rubio difende il suo operato – contestato - come senatore. Cruz, Rubio e Paul si beccano a vicenda sull’immigrazione, accusandosi l’un l‘altro d’avere cambiato opinione. Bush ha un flash di vivacità e attacca Rubio – che gli sta sottraendo l’appoggio dell’ establishment del partito -. Rubio e Kasich discutono sul nucleare iraniano, Paul, che è su posizioni isolazioniste, esprime preoccupazione per un coinvolgimento militare in Siria.
Tutti cercano di proporsi come credibili comandanti in capo. E tutti, a un certo punto, si ricordano di attaccare Hillary. Gli ultimi sondaggi danno Trump in testa fra i repubblicani negli Stati dove si voterà a febbraio, Iowa, New Hampshire e South Carolina –mancano i dati del Nevada-. (gp)